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3 Ore 15 Minuti
13 Giugno 2007 @ 18:00 - 21:15
Presso la sede dell’Associazione Culturale Civita, nel meraviglioso attico di Piazza Venezia che guarda dritto il Foro Romano, ha luogo “3 Ore e 15 Minuti”, collettiva d’Arte Contemporanea curata da Antonietta Campilongo.
3 Ore è il tempo di visibilità delle opere esposte, una durata breve in cui l’arte è illuminata dai riflettori. 15 minuti per un brindisi e una convivialità che si attarda. Civita è un’organizzazione non profit fondata da un gruppo di imprese, enti pubblici di ricerca e università, unitesi originariamente per far fronte al degrado di Civita di Bagnoregio, antico borgo dell’Alto Lazio. Attualmente, superati i confini locali e con oltre centocinquanta aziende associate è fortemente impegnata nella “promozione della cultura” attraverso ricerche, convegni, pubblicazioni e progetti.
L’evento unico, ideato e progettato come one shot, avrà inizio alle ore 18.30.
A cura di Antonietta Campilongo
L’esposizione comprenderà opere selezionate di pittura, scultura, fotografia e azione gestuale, coinvolgendo il pubblico in un variegato percorso estetico ed emozionale.
Sulla terrazza, con vista splendida, è previsto un cocktail con rinfresco.
3 Ore e 15 Minuti
“Tre ore e quindici minuti”, al tempo stesso il tema di una mostra e la sua durata effettiva. Il tempo dell’esposizione s’identifica con quello, effimero, del vernissage. Ma qual è il tempo che dedichiamo a un’opera d’arte, da spettatori? Le continue sollecitazioni cui i nostri organi di senso -e la vista in primo luogo- vengono sottoposti quotidianamente finiscono per creare un flusso percettivo, un rumore di fondo da cui emergono frammenti di messaggio il più delle volte casuali e incoerenti. La babele iconica propinata dagli schermi televisivi sollecita il nostro sguardo in modo talmente invasivo da influenzare lo stesso processo di selezione degli stimoli che il nostro cervello mette in atto, di giorno e di notte. Le modalità della visione, i tempi di attenzione si modificano rapidamente e ciò non può non avere conseguenze sullo sguardo rivolto a un’opera d’arte.
Nell’epoca di Daguerre un ritratto imponeva tempi di posa lunghissimi e persino un apparecchio per tenere immobile la testa del modello. In base a varie testimonianze letterarie, un’opera d’arte veniva contemplata a lungo, secondo una nozione del tempo e dello sguardo a noi ormai del tutto estranea. Furono gli Impressionisti, a introdurre l’immediatezza e il senso dell’effimero nell’occhio dello spettatore.
Più tardi l’illusione del movimento restituita dallo scorrere dei fotogrammi accelerò i tempi di risposta e di attenzione del pubblico, ma è stata la tecnica pubblicitaria, con la sua capacità di attrarre sguardi abitualmente confusi e distratti, a infondere alle modalità della visione un’ulteriore rapidità di focalizzazione.
La domanda che sorge spontanea è: siamo ancora in grado di guardare il tempo necessario, di soffermarci su un quadro, una scultura, una fotografia osservando da diverse prospettive, muovendoci dall’insieme al singolo dettaglio, gustando la costruzione formale, la tessitura, la materia, le variazioni timbriche o tonali, i piani e i volumi, il rapporto dell’opera con lo spazio?
In ogni mostra d’arte contemporanea la domanda viene riproposta, sia pure in modo implicito. In fondo la sperimentazione è in primo luogo la ricerca di un nuovo punto di vista, di una nuova modalità dello sguardo, un’interrogazione sull’opera o anche solo sul progetto dell’opera che solleciti la vista in modo inaspettato, creando corti circuiti, evidenziando ciò che è negato o non percepito, ma anche l’atto stesso del percepire.
Ha scritto Umberto Eco che ogni opera d’arte impone percorsi ripetuti, ma solo alcune eleggono questo principio a base della propria poetica. Di sicuro il tempo di percorso è una componente ineliminabile, come tempo necessario alla lettura, alla decodifica e interpretazione.
Ci sono opere che giocano sulla loro complessità per imporre un’attenzione prolungata e altre in cui è proprio l’icasticità del segno a colpire, opere in cui l’artista suggerisce il percorso esecutivo e altre in cui l’uso della citazione fa leva sulla competenza e sulla memoria iconica del fruitore. Il tema della mostra circoscrive il tempo a una misura precisa, ma è proprio questo limite, a sollecitare interpretazioni tanto varie.
Si va dall’ironia apocalittica di Mario Verta, con la sua citazione dickiana, alla parodia dell’efficienza militare di Pier Maurizio Greco, dalla fredda e al tempo stesso morbosa allusività di Consuelo Mura a quella tenue e preziosa di Manuela Alampi.
Il meccanismo associativo è reso di volta in volta più oscuro, nell’invilupparsi della forma di Adriana Cappelli, fino a farsi cifratura informale di emozioni in Antonella Catini o sfociare nel simbolismo arcaizzante di Paola Giacon. Per Claudio Lia invece la pittura è testimonianza diretta, affidata all’insorgere dei colori; una diversa strutturazione del tempo è riscontrabile nella torsione del marmo in Isabella Nurigiani, un gioco di luce e ombra che articola lo spazio circostante. Serena Meggiorini propone i suoi riflessi, le sue atmosfere da impressionismo astratto, laddove Anna Costantini, dietro l’apparente casualità del gesto, si affida a sottili rispondenze di tessiture e di toni. La ricerca personale di ogni artista e l’opera che ne è il risultato sono articolazioni del tempo, tempo dell’ideazione e dell’esecuzione, che s’interseca con i percorsi diacronici e sincronici dei visitatori, con quelli della memoria, stratificarsi impercettibile d’immagini, pronte ad affacciarsi per suggerire nuovi svolgimenti, nuove elaborazioni.
Ecco allora la stilizzazione del segno di Andrea Sterpa a fianco della partitura geometrizzante di Rosella Barretta, gli sfalsamenti luministici e temporali di Claudio Orlandi accanto alla composizione di tracce e orlature di Gabriele Simonetti, registrazione paradossale dell’effimero, del transeunte. E cosa di più labile di sfuggente, di un paesaggio colto dal treno, come mostra Giuliano Pastori? Nell’opera di Antonietta Campilongo la percezione dello scorrere del tempo è scandita dal ritmo architettonico, elemento di costanza nell’entropia progressiva dei sentimenti. In altri casi il tempo è fermato e ricomposto in un volto, come in Angela Vinci o, con vigore espressionistico, in Andrea Cardia. Se Massimiliano Doria evoca la precarietà con lo sfibrarsi del tessuto, in Giovanni Novi s’impone l’urgenza espressiva del colore acceso. Un’altra urgenza è percepibile nel livore anatomico di Rosanna Fedele, mentre l’impassibilità combinatoria è la cifra ironica di Paola de Santis. Vincenza Spiridione, infine, riconduce l’excursus temporale al suo significato tragico di lotta per la sopravvivenza.
Come si vede, ogni singola opera suggerisce una visione del tempo, sia esso percepito come istantaneità, ritmo, durata o memoria. Le tre ore e i quindici minuti destinati a questa mostra rappresentano una sfida per chi espone e chi osserva, un laboratorio del tempo e dello sguardo, affinché si torni a guardare, a scrutare nella superficie, nella tessitura, negli interstizi di una struttura e ci si veda riflessi, si ritrovi un distacco, una visione che non scivola davanti alle cose, ma alle cose dell’arte restituisce il tempo, tutto il tempo che ci vuole.
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