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DSC02476Impossibile è ciò che evidentemente non può esistere nella realtà, ciò che l’uomo astrae ed estrae dall’esperienza di vita pratica per designare categorie della propria immaginazione, del proprio desiderio e della propria paura di vivere. Si dice “una vita impossibile”, “un amore impossibile”, “un lavoro impossibile”, addirittura “un sogno impossibile”, etc., e si intende sempre qualcosa che evidenzia la distanza, spesso l’opposizione, fra quella che si vorrebbe fosse la realtà e quella che effettivamente essa è, fra ciò che si vorrebbe vivere e quello che concretamente tocca di affrontare. Ne deriva che l’impossibile contiene sempre un’idea della perfezione, ad essa fa riferimento. Anzi l’impossibilità è una sfumatura della perfezione, e viceversa, entrambe sono dichiarazioni di una medesima irragiugibilità, di una stessa tensione ideale. C’è quindi una perfezione dell’impossibile, perché nell’impossibilità, in questa cosciente frustrazione, c’è un mondo sognato, desiderato, temuto, che è esattamente corrispondente all’idea, e quindi, alla compiutezza che non può trovare effettività.

L’Arte si sviluppa come dialogo costante con le categorie dell’impossibilità. Ogni artista traspone nella sua opera un’interpretazione, e quindi una concezione ideale che gli fa vedere il mondo, anche nelle rese più veristiche, fuori dalle regole del reale e della palmare oggettività. L’artista immagina l’impossibile, perché è lui che dà le regole al mondo, lo inventa secondo il proprio senso ed il proprio concetto estetico. Ed in modo evidente ogni mondo artistico è un mondo impossibile. L’artista, poi, immagina l’impossibile in senso letterale, perché proprio all’impossibilità della sua concezione dà immagine e rappresentazione.

Ventuno artisti hanno qui accettato la sfida di confrontarsi con questo tema, hanno scelto un’immagine che potesse rendere la loro idea dell’impossibile, delle sue implicazioni, della sua astratta perfezione.

Ne è venuto fuori un insieme di opere composito, vario per tecniche, mezzi espressivi, idealità e canoni formali, da manipolare con un certo gusto per la scoperta e la sorpresa. Per constatare quanto di impossibilità e perfezione esista nella vita, nella sua aderenza o distanza all’idea che ce ne possiamo fare.

(francesco giulio farachi)

L’anima è una altezza da scalare per Angelo Ribezzi, abita l’orizzonte sconosciuto al di là di appigli scivolosi che seguono il profilo sinuoso dello sguardo. È una pittura di onde e pochi colori, essenziale nei tratti grafici e nei particolari, accentrata su un’emozione di accettazione disarmata, ipnotica come il perdersi negli abissi dell’incomprensione. In questa vertigine degli spazi e delle sensazioni, da oceano di naufragio, il soggetto è una piccola sagoma scura di vita e di tensione, che fatica, lotta e scivola via su una incommensurabile, distaccata, inesorabile ed oggettiva distanza, su quell’impossibilità di unione d’anime che sta tutta sul limitare di ciglia. L’anima, l’amore, la condivisione è appena oltre quel confine, è un altro abisso in cui perdersi e precipitare, forse finalmente felici. Si resta invece al di qua, piccoli eroi sconfitti, traditi dall’ultimo, ingannevole, vano sforzo.

Riccardo Paolucci modella volumi e movimenti. La morbida materia delle sue visioni, dei suoi personaggi, è plasmata (ce la vediamo quasi dinanzi) da agili dita, rapide e minuziose nello stesso segno. E poi, non si sa più se quella materia si rapprende all’incandescenza dei forni, o se si pietrifica per fermare essa stessa l’istante fugace in cui il mondo va danzando quelle forme. Terra, acqua e fuoco, e poi l’aria a dar vita, a render concreta l’illusione, a dare spazio e dimensione alle suggestioni. È uno spasmo vitale che si espande nel surreale e nell’ironico, nell’ammiccamento irriverente e complice con cui l’artista guarda all’umanità, nell’improbabile solerzia con cui il gesto rompe la fissità della posa. Fino all’intuizione del movimento puro, delle energie che vestono ed abbandonano le forme.

Il mondo di Adriana Cappelli si ravvolge nel fitto intreccio dei fili e delle trame, delle orditure che per istinto disegnano profili, degli accostamenti che fra colore e materia spalancano profondità. È un mondo che girovaga fra la tenuità di un sogno e la ruvida consistenza delle fibre grezze, che si sfilaccia in impressioni lievi come gli orli imprecisi dei canapi, che si compone di nodi e reticoli come gli arazzi. Mondo impossibile di contrasti pacificati, di dimensioni aeree nell’intima sobrietà della materia, mondo di delicati e rigorosi equilibri, di pazienti misure ed estri vivaci.

Gli angeli di Giovanni Camponeschi si librano sulla città, ma il loro spazio è altrove, il loro cielo è una diversa luce, lo stato di cose è separato e distante. La città si protende in altezze di guglie e cuspidi e minareti, in slanci di asciutte geometrie, nell’ordine reiterato di minuscole finestre e nicchie. Ma quello umano è un cosmo piccolo, dimezzato, sovrastato, soprattutto deserto. Sembra, si potrebbe azzardare, un cosmo all’alba del giorno del giudizio, quando i tempi hanno esaurito il loro corso, quando la realtà si fa silenzio, e tutto è fermo, profondo come il blu di mistero e perfezione che domina più del pallido sole, sospeso e quieto come quel volo d’angeli che viene ad abitare il mondo.

Evanescenza di fumi rossastri, distorsione dei contorni, presenza inquietante di lemuri e parvenze che si aggirano in un dominio di oro e nero. Gabriele Simonetti ritrae l’universo parallelo ed oscuro delle intime visioni, delle paure forse, degli spaventosi e ordinari smarrimenti. È il non-luogo che pure ogni essere umano occupa costantemente, in comitiva dei propri demoni inafferrabili, è lo spazio grottesco che si spalanca sorprendente dai recessi del sé, è il profondo ripostiglio da cui affiorano distanze di un passato remoto, il labirinto delle visioni ancestrali e terrifiche. Ma allo stesso tempo, è una regione familiare e conosciuta, rassicurante quasi, un riverbero già inteso, l’eco di una voce interiore che prova a darsi un respiro di consistenza.

Maria Cecilia Camozzi ferma nelle luci il vibrare di musiche e sensazioni, di energie che si liberano travolgenti, di armonie che si richiamano e fondono per comune istinto di seduzione. Come nel rincorrersi dei toni, quasi uno spettro degli estremi, dal bianco di un bagliore al nero sullo sfondo, dall’infrarosso fino all’ultravioletto da immaginare entrambi nelle onde e negli aloni delle forme. Immagini che non si possono dire, che si rivelano solo allo sguardo di un’emozione, che ritraggono l’inafferrabile momento in cui ogni sensazione converge in un’unica e sola contrazione della psiche, in una totale ed irripetibile trascinazione dell’anima.

Il rigore geometrico nelle forme essenziali e la corrispondenza di pieni e vuoti, dei tagli e dei profili, sono i punti da cui sviluppa il discorso artistico di Luigi Cipollone. La resa plastica anzi si libera proprio nella dialettica minuziosa fra misure e volumi, fra simmetrie e variazioni, per scindere poi la forma in sezioni apparentemente autonome, gioco di intagli e di fratture, e quindi gioco di profondità e successione di piani, gioco di incastri perfetti e di attente asportazioni. La stilizzazione geometrica accentua la polarità fra ragione e sensazione, ed in reciproca gradazione con il figurativo, fa sì che nettezza e morbidezza confluiscano l’una nel farsi dell’altra.

Antonella Catini costruisce gli aspetti del suo cosmo come sovrapposizioni e sottrazioni. La densità materica delle sue tele è il piano di attrito dove si coagula il colore e i pesi si sfaldano in ripercussioni e tracce, dove la gestualità si contiene in rapidi abbandoni di linee e segni, nel debordare fuggevole delle stesure, dove si condensa una nebbia distante d’indistinto. È la perfezione possibile, quella di una cadenza che regoli in armonia l’incongruità delle realtà indipendenti e diverse, quella di impeti vitali che diano la direzione al movimento sregolato delle sensazioni, quella di un equilibrio mutevole su cui la materia grezza della vita modelli di volta in volta la propria tenace esistenza.

I soggetti di Giuseppe Siciliano si rivelano fra materia e colore, come fosse conquista di fisicità per gli elementi che di natura appartengono alla sensibilità umana, una sorta di tattilità dell’immaginario. Si fanno dunque figurazione il quotidiano e la memoria ancestrale, le esperienze individuali ed i riti collettivi, i miti ormai dispersi del passato e quelli effimeri della contemporaneità. Materia e colore si aggregano e danno forma a testimonianze e bisogni, a paure ed aspirazioni, richiamano e vestono agli occhi il movimento di limpide forme, il sottofondo degli istinti primari, l’affiorare di intime percezioni.

Un realismo appena soffuso di tenue malinconia splende nei quadri di Carlo Capone, ammorbidito dai toni pastello, rifilato da un segno-confine come in un’inquadratura, catturato e desunto dal suo contesto, quasi fosse l’istantanea di un ricordo, la permanenza di un’emozione. È un mondo di particolari, di isolate visioni ed intuizioni, che proprio dalla realtà filtra idee, pulsioni e slanci, modi di un diverso esistere, è uno spazio delimitato, certo e rasserenato, ma non per questo chiuso in se stesso, relegato nelle eburnee torri dell’incomprensione. Al contrario, le immagini paiono carrellare dai primi piani, espandersi a contaminare lo spazio circostante, intridere dei propri colori il rimanente universo.

La perfezione è una possibilità ed una impossibilità relativa, pare dirci Gianpaolo Ghisetti. Ci sono così momenti, emozioni, situazioni in cui tutto si inscrive in un tondo di raggiunta perfezione, in cui gli spigoli dell’esistenza scompaiono alla percezione dei sensi e del cuore, in cui la pura compiutezza del sentire e del comunicare occupa tutti i vuoti e gli ulteriori spazi, in cui luce e stretti incavi di chiaro-scuro si scambiano onde ed espressione. Tutto allora si rivela nella propria delicata e fragile compostezza, nel suo fluttuare di cellula compatta, pronta però ad esplodere quella agognata esattezza sulla realtà, a palesarsi di tanto in tanto per raccontare la bellezza e l’armonia al mondo distratto.

Pochi colori e pochi tratti usa Andrea Sterpa per rappresentare i volti, per liberare alla superficie del visibile l’estendersi vasto delle sfere intime. Attraverso gli occhi, enormi, sempre dolcissimi e pronti, occhi che guardano ed assorbono luce, che si spalancano sul mondo ad invadere e ad essere invasi, le figure di Sterpa esaltano la ricchezza delle passioni, la denunciano in un alito di pacificato controllo, la mostrano in quella definitezza e limpidità che son proprie della coscienza, della consapevolezza di sé. Si possono toccare allora i sogni impossibili, vederli come in una proiezione sul muro, mitigarne i contorni e le misure, adeguarli allo sguardo, al senso vero di ogni vita.

Pier Maurizio Greco insegue simmetrie e segnali, li perseguita con decisione fino a donar loro quel movimento o quella stasi che compete, li abbandona sulla tela a stabilire le loro relazioni ed i loro dissidi. I colori si stemperano appena in qualche cenno di velatura, stesi come sono in campiture piene con solo alcune volte un tenue riflesso di sé, delineati al nero denso da percorsi, termini e partizioni. Eppure è un equilibrio possibile unicamente perché immaginato, perché solo fra simboli e forme, fra idee e realizzazioni, l’universo può ordinarsi secondo l’eleganza della bidimensionalità, secondo gravitazioni lineari e precise, secondo un’assoluta proporzione e corrispondenza delle potenze in campo.

I colori di uno sguardo, di occhi intensi d’anima, vengono fuori, si dispongono al di là della figura, assorbono in sé ogni altra variazione tonale, invadono i lineamenti prosciugati al bianco-nero, dominano ed occludono gli spazi. Maddalena Marinelli descrive così lo spandersi delle intime relazioni, e forse anche il suo disperdersi inafferrabile. Impossibile percepire le forme ed i contorni delle forze vitali, dell’unicità individuale, delle passioni che erompono proprio quando tutto sembra fermo e stabile. Si può solo seguire il rapprendersi, l’orientarsi in tasselli scomposti delle energie, provare a cogliere i rigagnoli da cui sgorgano i colori.

Antonietta Campilongo sonda l’interiorità femminile, il suo precipite raccogliersi su un pensiero solitario, il concentrarsi su una sensazione che domina ed esclude ogni altra realtà. La stessa realtà che veristicamente viene rappresentata e che agisce a contornare proprio con quella sua nettezza l’inconsistente profilarsi delle sensazioni e dei dialoghi intimi. Pittura fatta di profili che si perdono nel dissolversi in ombra e controluce, fatta di giochi di riflessi, di trasposizioni e scambi.

Consuelo Mura lascia sospesa nei dettagli l’antinomia fra possibile ed impossibile, e poi fra desiderio ed effettività. Cosicché si perde la tensione della constatazione nuda e cruda, tutto si dissolve nelle spire delle mille eventualità, dei mille sensi che si possono trovare in un incontro, in un gesto, in una posa. Semmai perfetta, la realtà rimane fredda al di sopra del passo che si fa per percorrerla. Invece nell’abbigliarsi ricercato di quel passo è possibile intravedere fascini e segreti, cenni e promesse, storie ed anime. L’autentica impossibile perfezione di un particolare.

L’ironia di visioni surreali, quella degli accostamenti incongrui, materie e concetti che si cercano, si scoprono, si alleano e mettono alla berlina il serioso tormentarsi della quotidianità. La creatività di Luca Soncini si adopera per dare la stura a visionarietà in cerca di insolito equilibrio, per modulare un linguaggio d’arte fuori dagli schemi del consueto, per bilanciare i canoni formali delle tradizioni e quelli dell’innovazione. Realtà contemporanee, mondi oggettivi e singolari ossessioni, natura ed artificio, si posizionano in un collage desacralizzato, di terreno simbolismo, un piano dove fare i conti con le proprie angosce, con la propria capacità di guardarsi dentro.

Inconsistenze di fumo scivolano flessuose sulle superfici scabre, fra gli interstizi di tenui mosaici grinzosi, sugli andirivieni dei colori. È un lavoro di pazienza e di fantasia, quello di Flaminia Mantegazza. Carta di riviste, dalle tinte patinate ed elettriche, e poi il gesto che modella tessere e bacchette, globuli e bastoncelli, ed infine l’immaginazione da lasciar andare libera a comporre stesure e gradazioni, sagome o semplici impressioni. La carta appallottolata dà una consistenza da materia magica, insieme leggera e rigida, luminosa di opachi riflessi, polita ed al tempo stesso grinzosa. Ed è la medesima magia delle visioni, in cui si mescola il separarsi netto della materia e la morbidezza dei voli ideali, l’assenza di geometrie precise ed il meticoloso accostamento delle parti, la fuga dei cromatismi in forme imprecise, vaghe e imprendibili come sogni.

Il paradosso è un fuoco d’artificio, il dilatarsi esplosivo di un desiderio e di un’idea. Così Maurizio Baccanti assembla colori e materiali, fantasie e immaginazioni, mette insieme colori e luci, che chiama notte, con sole ed astri che splendono nessuna luminosità. Pure forme di una Natura che compone i suoi elementi in spalancata provocazione verso il consolante senso comune, condensazioni abbagliate in grovigli di linee e sovrapposizioni, rivelazione di un cosmo disordinato, denuncia di una discordia nella realtà delle cose. Tutto ciò si illumina nell’incongruenza di questo mondo, insieme alla tempra ideale che trasforma le figure in apparizioni, alla ricerca di una inarrivabile compiutezza.

Francesco Gentile fa procedere le sue visioni da sfondi lontani, dalle tenebre generatrici degli spazi interiori. Cellule di vita appaiono nel movimento di code e virgole, nell’incalzarsi delle sovrapposizioni, nel conformarsi dell’essere in nuove e diverse strutturazioni. Strutturazioni dell’irreale, dove ancora è possibile immaginare una forma che si crea da una seduzione di colore, e dove assetto e confusione sono elementi primari di ogni evoluzione, e si compongono coerenti nella reciproca integrazione.

Negli acquerelli di Manuela Alampi l’energia e la tensione vitale debordano ed assalgono la superficie dipinta, la chiazzano e la contaminano di incontenibile slancio. Si rompe la precisione della linea grafica, istinto ed estro variano e trasformano i contorni, il colore si diluisce nel suo stesso segno e nelle colature. La forza espressiva possiede interamente la composizione, la sottomette al proprio vigore, quasi diventa soggetto principale scalzando l’immagine a far da complemento al suo vibrare. È il rappresentarsi di un colloquio personale, di un dialogo fra sé, in cui entrano la vita e le esperienze, le memorie e gli incantamenti dell’io. E tutto ciò si rapprende in gesto e segno pittorico, nell’insistente suo ribadirsi, nell’incalzante affermarsi.

A cura di Antonietta Campilongo

Artisti:

MANUELA ALAMPI – MAURIZIO BACCANTI – MARIA CECILIA CAMOZZI- ANTONIETTA CAMPILONGO- GIOVANNI CAMPONESCHI -CARLO CAPONE-ADRIANA CAPPELLI- ANTONELLA CATINI- LUIGI CIPOLLONE- FRANCESCO GENTILE- GIANPAOLO GHISETTI- PIER MAURIZIO GRECO- FLAMINIA MANTEGAZZA- MADDALENA MARINELLI -CONSUELO MURA- RICCARDO PAOLUCCI- ANGELO RIBEZZI- GIUSEPPE SICILIANO – GABRIELE SIMONETTI- LUCA SONCINI – ANDREA STERPA

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